Caladan Brood – “Echoes Of Battle” (2013)

Artist: Caladan Brood
Title: Echoes Of Battle
Label: Northern Silence Productions
Year: 2013
Genre: Atmospheric Black Metal
Country: U.S.A.

Tracklist:
1. “City Of Azure Fire”
2. “Echoes Of Battle”
3. “Wild Autumn Wind”
4. “To Walk The Ashes Of Dead Empires”
5. “A Voice Born Of Stone And Dust”
6. “Book Of The Fallen”

Le stelle sovrastano un cielo nero che si confonde con il deserto. Smarrito tra le sabbie roventi, un manipolo di combattenti ormai dimenticato ha scordato il calore dei focolari dei suoi padri, il suono dell’arpa che li animava e le fiamme azzurre che vi guizzavano danzando; non torneranno mai più a casa, e avranno come unica compagna una spada pesante e sporca, non più strumento di morte ma fardello insopportabile che ricorda pentimento, violenza e dolore. A dispetto di quanto ritenuto da questi soldati, però, le loro azioni trovano un’eco lontana nel nostro presente, errando in lande i cui paesaggi sono direttamente forgiati da memorie vetuste e duplicandosi nei solenni sospiri che ancora oggi, a distanza di ben dieci anni, possiamo sentire quando rimettiamo nello stereo la sola e -al momento della stesura di questo articolo- unica uscita degli statunitensi Caladan Brood.

Il logo della band

“Echoes Of Battle” si fa portavoce in una decade di vita rarefatta di un’ancora avvincente storia burrascosa fatta di lotte e guerre tra razze e popoli che si contendono un mondo tanto fantastico quanto perfetto nel suo potere evocativo. Esattamente come nell’opera dello scrittore Steven Erikson -a cui peraltro la band si ispira direttamente non soltanto nella scelta del proprio nome- i punti di vista prediletti in quelle che possono invero essere considerate delle narrazioni (ben sei brani di almeno nove minuti ciascuno) sono quelli di personaggi estremamente longevi che hanno vissuto sulla propria pelle l’evolversi delle contese, la dissoluzione dei propri ideali e il potere coercitivo della paura.
Pur rifacendosi direttamente ad un immaginario ben consolidato, chiaro ed inequivocabile anche -se non soprattutto- dal punto di vista musicale, nell’unica uscita firmata per una Northern Silence Productions al tempo in mirabolante ascesa dall’oggi quasi leggendario duo di Salt Lake City emerge tutto l’impegno di voler mostrare sia il proprio amore per certi modelli stilistico-concettuali e di volersi al contempo immettere nella loro tradizione, senza tuttavia avere la pretesa sterile di gareggiarvi ad armi pari, bensì come un omaggio vivente che respiri tramite musica, immagini e parole: portandone avanti insomma le vestigia e correndo anche il rischio, assumendoselo in pieno, di passare in sordina come una mera controfigura – un evitabile sovrapprezzo da pagare per fucinare proprio quegli empires built upon the bones of those who stood beside us che avrebbero nel 2013 dato il La ad una seconda, epica, magniloquente ondata di Atmopheric Black Metal fantastico e dalle tematiche e sonorità oggi così tanto inquadrate e definite.

La band

L’attitudine a voler abbracciare quindi una tradizione, fino a quel momento peraltro circoscritta all’operato di bene o male una sola band, senza volersene appropriare con scarsa o inesistente originalità, si dipana ulteriormente grazie all’evidente e curiosa distanza temporale tra l’anno di pubblicazione di “Echoes Of Battle” e l’arco cronologico in cui ha preso sempre più forma, allo scadere estremo degli anni Novanta, la primissima fortuna dei principi innegabili dell’Atmospheric declinato in questa veste così scarna eppure grandiosa – così poco formalmente eppure così tanto linguisticamente Black Metal: quei tanto idolatrati Summoning verso cui i Caladan Brood provano un’ammirazione talmente forte da finire troppo spesso per essere fraintesa in scimmiottesca riproduzione (servisse a peggiorare la situazione: la partecipazione nel 2016 con una tutto sommato fedelissima riproduzione della indimenticabile “Farewell” nella compilation di tributo e cover intitolata “In Mordor Where The Shadows Are”, a cura di Wolfspell Records). Forse un po’ corposi e pure densi, dal lato centro-europeo, gli anni intercorsi tra tali significativi eventi nonostante il frapporsi del fattore geografico – comunque per nulla trascurabile trattandosi di una band statunitense. I paralleli tra il duo viennese e quello dello Utah non si esauriscono pertanto, da un lato, nella scelta di un’impronta atmosferica medievaleggiante (si pensi ad una title-track come “Echoes Of Battle”, o alla conclusiva e quasi riassuntiva epica incastonata in “Book Of The Fallen” con quel bridge proveniente direttamente dalle terre attorno a “Dol Guldur”) e nello stile sonoro complessivo (dalle voci principali del narrato, ai ritmi e ai tempi, tutto è in una certa misura replicato), né in fattori esterni e formali quali la scelta della massiccia cornice dorata della copertina, e nemmeno nella decisione di assurgere a musa ispiratrice un modello letterario che sia abbastanza circoscritto – Tolkien e Moorcock, su tutti gli altri, nel caso discograficamente più ampio dei Summoning, Erikson nel caso dei Caladan Brood. Ma proprio nella diversità delle stesse fonti letterarie le notevoli differenze tra i due progetti si misurano in primis, e soltanto poi nella conseguente varietà di esiti: così tanto spesso agonizzanti e drammatici nel primo caso, tanto esaltati, esaltanti (l’afflato zimmeriano semplicemente sopraffino di “To Walk The Ashes Of Dead Empires”) e solenni (“City Of Azure Fire”) come la testimonianza di un cantore errante nel secondo.
Piuttosto che ai più tenebrosi paesaggi stregati del mondo tolkieniano, Shield Anvil e Mortal Sword volgono il proprio sguardo evidentemente commosso ad un’intera era consumata da intrighi, combattimenti e sogni dal sapore ancestrale ma terreno, epurandosi dalla ingombrante componente solamente fantastica che distanzia completamente in questo l’immaginario dello scrittore di origini sudafricane. La presa di coscienza del valore di servirsi di una fonte letteraria quale spirito guida che orienta la forgiatura di stile e composizione trova una compiuta esemplificazione quindi innanzitutto nelle liriche, forse più vicine alle contese tutte Symphonic Black Metal dei Bal-Sagoth che non agli inni incantati dei Blind Guardian, anche questi ultimi tuttavia con il loro Power Metal sinfonico (come esercitato dal 1998 di “Nightfall In Middle-Earth” in poi) non soltanto grandi interpreti dei testi di Tolkien ma papabile influenza nelle tirate melodiche affidate a quei cori così perfettamente armonizzati che dei Caladan Brood hanno fatto identità e fortuna rispetto al piccolo filone il quale, all’inizio degli anni ’10 del nuovo millennio, stava già sotterraneamente ribollendo con Gallowbraid (dello stesso Jake Rogers) ed Elderwind ma che sarebbe esploso proprio nell’immediato indomani del cruciale 2013 di “Echoes Of Battle”.
Se tuttavia ad un orecchio annoiato o poco appassionato tale distinzione può sembrare fittizia in quanto l’alveo letterario di riferimento appare quantomeno accostabile, una maggiore attenzione alla sola componente musicale può certamente insinuare ancora qualche dubbio. Eppure, volendo più seriamente addentrarvisi, il modo assolutamente creativo e originale in cui i Caladan Brood hanno costruito un debut album di appena un’ora e undici minuti basta da sé, infatti, a mostrare l’assurdità di forzare un confronto tanto inutile e svilente che li vorrebbe incatenare solamente ai loro paladini austriaci. La fisicità rocciosa in palm-muting dei giri nella seconda metà del brano che dona il titolo al disco sono un primo indizio, avvalorato dalla complessità dei piatti programmati poi sulla drum-machine; ma sul finale della traccia centrale, la commovente “Wild Autumn Wind”, un’eco bathoriana ci regala la prova e scandisce infatti il ritmo cadenzato di un ineditissimo (per i padrini europei) assolo dalle melodie solenni che rievocano proprio l’era Viking della scrittura di Quorthon o gli stilemi Epic ottantiani del nuovo continente, benché ripuliti di quasi vent’anni di evoluzioni dall’ospite Leeland Campana come nel parallelo Visigoth per Shield Anvil. Anche soprassedendo sulle comunque notevoli incursioni smaccatamente folkloristiche (i giri di fiati non solo sul climax della quarta traccia, corredata di coda intrecciata sulle sei corde acustiche, e quelli nell’ultima), da tale dieresi non c’è d’altro canto ritorno: il ritmo compositivo si rende sempre più rampante, ormai alieno agli autori nello stesso anno di “Old Mornings Dawn” (con cui comunque permangono curiose e sicuramente fortuite analogie, si guardi all’atmosfera sabbiosa nell’incipit di “A Voice Born Of Stone And Dust”), anelando ad un crescendo che si conclude solo con la fine della battaglia – e quindi del disco.

Questa seconda metà, in conclusione, potrebbe essere la vera chiave di lettura del successo incredibile di un simile disco. In questa seconda metà dell’album sembra infatti che i Caladan Brood volessero proprio dimostrare la propria indiscutibile capacità non di seguire ma di affiancarsi ai propri idoli, mostrandosi alleati e non alfieri da massacro in prima linea. Più che nella voce narrante -il neanche a dirlo consueto, inconfondibile, acido scream di vicinissima memoria Silenius/Protector– o negli aloni esageratamente riverberati delle chitarre e delle percussioni elettroniche senza vita, l’estro compositivo del duo si può ancora di più apprezzare nella stratificazione sanguigna dei poc’anzi accennati cori maschili, così alti, così dirompenti e così intonati, armoniosi ed impiegati in maniera tanto cospicua (come un vero tratto stilistico, del resto) qualora confrontati a quelli di ogni possibile rivale anche successivo, e nella maestosità trionfale dei sintetizzatori che senza freni e con una varietà di toni introvabile altrove accompagnano le gesta degli eroi, come negli improvvisi salti da un uso ampolloso ad uno più veloce e tuonante della batteria – un accorgimento, questo, usato sì anche dai Summoning agli esordi di carriera ma ben presto e non casualmente abbandonato. Non è dunque un caso nemmeno che dopo quella lenta pace iniziale le cose cambino e l’espediente tratteggiato sia portato alle sue attuali estreme conseguenze, fino al sorprendente blast-beat e alla stratificazione di un coro di guerrieri di diversa foggia, coraggio e ordine che esce a gran voce in particolare nella diversissima “A Voice Born Of Stone And Dust”, dove l’urlo di un araldo s’intreccia finalmente nella paura e nell’onore di un’orda di guerrieri che non hanno più la ferocia di combattere con violenza, ma rivivono la fiamma di quel furore grazie al racconto del loro rapsodo. Una metafora, col senno di poi: di una diversità troppo poco spesso sottolineata ma in perenne marcia, che avrebbe fatto sognare non solo i Sojourner o i vari Eldamar e Cân Bardd, più evidentemente, ma anche dei forse meno sospetti Mesarthim tra gli altri nell’ora e dieci che accompagna fedele la lettura di pagine non ancora scritte, d’imperi caduti e delle tombe dell’uomo che, come quelle di ogni sovrano, diventano polvere col favore di ogni nuova alba.

Severed from death,
We march, we march…
Bound to the throne,
We march, we march…
Cursed by Tellann,
We march, we march…
Warriors of bone,
We march
!”

Sara “Vesperhypnos” Cönt

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